(Cape Elisabeth, 1894- Palm Desert,
1973)
Esordisce a Hollywood negli anni
della prima guerra mondiale, dirigendo, tra il 1917 e il 1920, una trentina di
film western.
Questo intenso apprendistato (e la lezione di Griffith e di Ince,
di cui fu aiuto regista) lo imporrà come uno dei più preparati
registi hollywoodiani, capace di realizzare pellicole di sicuro
successo.
La densa attività negli anni del
cinema muto trova il suo vertice nel 1924 con il film Il cavallo
d'acciaio (The Iron Horse), un western che descrive
la costruzione della prima ferrovia voluta da Lincoln e che
attraversa gli Stati Uniti.
Restano molti dei temi cari a
Griffith e Ince, ossia la forza e il coraggio dei pionieri, la
volontà di conquista e civilizzazione di nuove terre (spesso
proprio attraverso la ferrovia) e la pericolosità dei combattimenti
contro i pellerossa, simbolo di una barbarie da sradicare.
Lo stile fordiano è attento alla
definizione psicologica dei personaggi e a quel realismo della
rappresentazione capace di tratteggiare casi della vita "eterni",
pur calandoli in una dimensione storica che ne metta in luce le
antitesi (amore/odio, coraggio/viltà, lealtà/menzogna ecc...).
Bibbia e William Shakespeare al
contempo; i coloni della frontiera sono una sorta di popolo eletto
alla ricerca di una terra promessa, mentre Shakespeare arricchisce
continuamente l'intreccio con citazioni più o meno esplicite (In
Soldati a cavallo, The Horse Soldiers, 1959 si recita
Riccardo II).
Questa visione trova dunque nel
western la sua più acuta rappresentazione, tanto che Ford vi torna
nel 1939 con Ombre
rosse (Stagecoach). Esempio di
racconto classico contraddetto dai ripetuti scavalcamenti di campo
che ne minano l'apparente linearità. Un gruppo di eterogenei
viaggiatori, di "maschere sociali", percorre i luoghi topici del
West: dal saloon, all'ufficio dello sceriffo, prima di avventurarsi
nella wilderness della Monument
Valley e subire il celebre attacco indiano sventato
dall' "arrivano i nostri" della cavalleria.
La breve parentesi del cinema sociale,
più esplicitamente rooseveltiano, porta Ford a dirigere un'opera
come Furore
(The Graps of Wrath, 1940). Tratto dall'omonimo romanzo di John
Steinbeck, la pellicola racconta la terribile siccità, di una terra
ormai tornata al deserto, che costringe una famiglia alla fuga dal
paese natio e a viaggiare sulla Route 66 alla ricerca di una nuova
esistenza possibile.
In Sfida
infernale (My Darling Clementine, 1946) tornano i temi
dell'amicizia virile e dello scontro tra civiltà e barbarie, seppur
attraverso un uso espressivo della luce e degli obiettivi utilizzati: il grandangolo marca ulteriormente lo
stacco tra un interno soffocante e la maestosità della natura al di
fuori.
Il massacro di Fort
Apache (Fort Apache, 1948) è invece la ricostruzione romanzata della
leggenda del generale Custer e della vita in un avamposto sperduto
che vive ormai di rituali per mantenerne l'ordine.
La classicità fordiana diventa
ancora più apparente in Sentieri selvaggi (The
Searchers, 1956), in cui non solo convive con una
narrazione ellittica, ma affronta il divieto per eccellenza, ossia
il tabù dell'incesto. Inoltre l'eroismo dei pionieri si fa più
ambiguo e feroce (Ethan Edwards, interpretato dal suo attore
feticcio John Wayne ne è l'incarnazione, accecato dal suo odio
personale per i pellerossa). Ne L'uomo che uccise Liberty
Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1961), Ford contrappone
alla falsità di ciò che la storia tramanda (la leggenda), il mito
di un mondo arcaico e scomparso, superato dai tempi e
dall'inevitabile progresso.
Ombre
rosse (Stagecoach, 1939)